Nel nostro viaggio verso la felicità consideriamo quanto sia importante acquisire la capacità di avere il “controllo della mente”, come ci ha insegnato il Buddha.
Alcuni miei pazienti riportano scoraggiati che alcune situazioni che creano sofferenza si ripetono nelle loro vite, hanno l’impressione di non riuscire ad evolvere e di dover rimanere in balia dei loro pensieri dolorosi, nonostante in alcune sedute si sia parlato di come affrontarli.
In realtà raggiungere la consapevolezza di alcuni nostri meccanismi mentali è un percorso impegnativo e lungo, soprattutto quando non siamo abituati a stare nella presenza mentale.
Nel libro di Giulio Cesare Giacobbe, “Come diventare un Buddha in cinque settimane”, vengono riportate le parole tramandate dalla psicologia buddista, in cui si spiega l’importanza di avere un controllo sui nostri pensieri.
“Per controllare la mente è necessario osservarla. Osservare cioè le proprie sensazioni, le proprie emozioni, i propri pensieri. Soprattutto i propri pensieri. Perché è il pensiero la causa delle emozioni e quindi è il pensiero la causa della nostra sofferenza. Infatti l’emozione è originata dal pensiero.
Per fare un esempio: se penso alla perdita di una persona cara, si produce in me un’emozione che chiamo “sofferenza”. Se penso invece a una persona cara che mi sta vicino, si produce in me un’emozione che chiamo “piacere”. Dunque è il pensiero che produce la nostra sofferenza psichica.
Ora, la cosa importante da capire, è che il pensiero che produce sofferenza non è volontario”.
Succede che, improvvisamente, ci arrivino dei ricordi alla mente che innescano dei pensieri che, a loro volta, innescano delle emozioni, provocando una spirale discendente che crea la sofferenza.
L’autore infatti ci dice che: “il pensiero che ci dà sofferenza è il prodotto automatico della tensione registrata nella nostra memoria”.
Da quando, alcuni mesi fa, è morta mia mamma, mi capita spesso, guardando la sua foto, di ritrovarmi in uno stato malinconico: penso che mi manca, che mi mancano i momenti in cui stavamo insieme, le nostre telefonate e mi accorgo che questi pensieri mi cambiano l’umore e, se li coltivo, scivolo velocemente in uno stato di sofferenza.
Essendo però diventata piuttosto veloce a individuare il mio cambio emotivo e i pensieri connessi a questa melanconia, decido consapevolmente di cambiare il dialogo che in quel momento ho con lei, focalizzandomi, ad esempio, sulle cose belle che abbiamo fatto insieme, sui buoni valori che mi ha trasmesso.
Questo mi aiuta modificare l’emozione malinconica in un’emozione di gratitudine, perché quello che ho vissuto con lei nessuno me lo può togliere.
Posso decidere io come utilizzare il ricordo e il pensiero collegato a mia madre. Istintivamente, devo riconoscere, mi viene da connettermi ad un pensiero negativo perché la mente, che è abitudinaria, in primis utilizza meccanismi che ha imparato fin dall’infanzia.
Mia mamma era una persona che si preoccupava sempre molto ed io ho assorbito inconsapevolmente questa modalità di approcciarmi ai problemi. Ora che sono conscia di questo meccanismo, cerco di essere più vigile e di non amplificare le preoccupazioni legate ad una notizia che inizialmente mi può sembrare negativa.
Spesso infatti ci preoccupiamo e ci arrabbiamo quando le cose non vanno come ci aspettiamo, quando ci arriva una notizia brutta, che non accettiamo, perché non è quello che avremmo voluto.
In questi casi possiamo provare a vedere un lato positivo nella situazione nuova che non ci piace. Perché anche nelle situazioni che non vorremmo c’è un lato positivo, una nuova possibilità a cui non avevamo pensato.
Possiamo, ad esempio, rimanere delusi perché non riceviamo una promozione che secondo noi ci spetta. Probabilmente ci sentiamo defraudati di qualcosa che pensavamo di meritare, come ricompensa della nostra dedizione al lavoro.
In questa situazione proviamo sofferenza, perché non ci sentiamo riconosciuti nel nostro impegno, continuiamo a rimuginare sul perché siamo stati trattati ingiustamente, non ci sentiamo abbastanza adeguati, oppure possiamo pensare di esserci sforzati ma di non essere stati valorizzati per motivi indipendenti da noi.
Se pensiamo che i nostri sforzi non vengano giustamente ricompensati, possiamo continuare comunque a fare bene il nostro lavoro, magari con orari più adeguati per noi e utilizzare il tempo che si è liberato per stare con i nostri familiari.
Anche in questi casi il malessere deriva dai pensieri che facciamo riguardo alle situazioni. Se guidiamo i pensieri verso l’utilizzo delle nostre risorse, potenzialità e possibilità, ci regaleremo momenti di felicità, perché andremo verso l’accettazione della situazione e vedremo cosa potremo guadagnare in essa.
Se invece continueremo a rimuginare su pensieri vittimistici, di delusione e magari anche propositi di vendetta, otterremo solo di prolungare la nostra sofferenza.
Alla prossima istantanea.